di Isabella Rauti
Saluto con grande attenzione istituzionale e soddisfazione personale il Tour promosso dalla Onlus “Intervita” in 14 città italiane, con i workshop di ascolto e confronto, quale declinazione sul campo dei risultati della Ricerca “Quanto costa il silenzio?”, sui costi economici, sociali, lavorativi ma anche e soprattutto umani, delle violenze sulle donne.
I risultati della Ricerca pongono, a tutti gli stakeholder, una questione di fondo: come contrastare e prevenire il fenomeno diffuso – e spesso sommerso – delle violenze sulle donne e come arrivare a più mirate ed efficaci strategie al livello nazionale.
E, l’obbiettivo finale del Tour di “Intervita” è quello di arrivare alla stesura di Raccomandazioni condivise, per mettere a sistema l’offerta dei servizi di contrasto alla violenza di genere e migliorarne l’implementazione e l’accesso.
Il costo complessivo stimato per la violenza – per tutta la comunità! – è di circa 17 miliardi, distribuiti tra spese sanitarie, giudiziarie, del mondo del lavoro, per la sicurezza ed altro; senza poter calcolare fino in fondo il “prezzo” emotivo ed esistenziale. Costi in grado di incidere negativamente sulle dinamiche di sviluppo e coesione sociale e, a mio avviso, su quelle della partecipazione democratica e della rappresentatività di tutti i gruppi sociali.
Il metodo qualitativo e quantitativo della Ricerca rappresenta una sostanziale novità che spazza via alcuni luoghi comuni e, dati alla mano, sfida la rassegnazione, la sottovalutazione ed il negazionismo che talvolta serpeggiano rispetto alla percezione del fenomeno.
L’approccio della Ricerca di Intervita Onlus ci pone al livello internazionale per il nodo tra valutazione dei costi, prevenzione del rischio e accoglienza delle vittime. Ci si avvicina al cosiddetto “Modello Scotland” (accreditato presso le Nazioni Unite e l’OMS), che punta a quantificare i costi della violenza, per ridurre le spese e il numero delle vittime nonché aumentare i casi portati in giudizio. Il metodo ideato da Patricia Baroness Scotland (già Guardasigilli del governo laburista) mette in rete una serie di soggetti: datori di lavoro, operatori medico-sanitari e servizi sociali, sistema giudiziario e Forze di polizia, in una “multi agency” o task force operativa.
E si può fare riferimento anche a un altro metodo internazionale di riferimento, il “modello predittivo” statunitense sulla “Valutazione del pericolo“ (Jacquelyn Campbell) che, per la prevenzione e la tutela delle vittime, punta allo studio scientifico dei fattori di rischio ed alla diminuzione della recidiva.
Alla “Valutazione del rischio” ed alla predizione di recidiva, è dedicato uno specifico sottogruppo del “Tavolo Interistituzionale sulla violenza contro le donne” – al quale partecipa anche il Ministero dell’Interno – ed è auspicabile che il “Piano di azione contro la violenza sessuale e di genere”, varato e finanziato con la recente Legge 119\2013, nella pluralità delle azioni previste, includa anche le linee di valutazione del rischio, come strumento utile a tutti gli operatori sul campo.
Il Ministero dell’Interno è da sempre impegnato, con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, sul fronte della prevenzione e del contrasto del fenomeno della violenza di genere; a questo scopo sono state istituite le “Sezioni specializzate” delle Squadre mobili delle Questure che operano in collaborazione con le Associazioni ed i Centri antiviolenza.
Le Forze di Polizia sono costantemente aggiornate ed il Dipartimento della Pubblica Sicurezza ha pianificato corsi di Formazione professionale ed esercitazioni pratiche, sulle tematiche della violenza domestica e dello “stalking”. Nell’ambito delle iniziative di Formazione per il contrasto alla violenza, sono state avviate diverse progettualità di rilievo europeo, specialmente nell’ambito del Programma “Daphne”; tra le prassi migliori e più diffuse non si può non ricordare il metodo “S.A.R.A.” (Spousal Assault Risk Assessment), per l’identificazione dei livelli di rischio di recidiva e per la sinergia tra soggetti professionali diversi. Ma anche l’“AViCRi” (Attention for Victims of Crime), con un pacchetto formativo standard ed il “MuTAVi” (Multimedia Tools Against Violence), finalizzato alla realizzazione di pacchetti formativi per il personale che effettua il primo intervento ed il supporto alle vittime.
Un contributo importante alla conoscenza del fenomeno è rappresentato dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), istituito nel 2010 presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. L’organismo, che conduce un’analisi costante dei dati sulla violenza di genere come forma discriminatoria, rileva le dimensioni quali-quantitative del fenomeno per ottimizzare i risultati operativi ed elaborare idonee misure di prevenzione e di contrasto.
Un braccio operativo, nell’azione di contrasto del fenomeno, è costituito dalle Prefetture – Uffici Territoriali del Governo e particolari sensori delle esigenze sociali; si combatte la violenza di genere e si tutelano le vittime anche attraverso appositi Protocolli d’intesa tra le Prefetture e gli Enti territoriali (pubblici e privati), i centri antiviolenza, i presidi sanitari, i dirigenti scolastici e le associazioni.
Le linee di prevenzione e di protezione trovano nuova organicità nella citata Legge 119 del 15 ottobre 2013; conversione con modificazioni, del Decreto Legge n.93 del 14 agosto, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere (…)”. Si rafforzano gli interventi sanzionatori già previsti e si introducono importanti novità – anche nel rispetto dei principi contenuti nella Convenzione di Istanbul – adottando specifiche misure di tutela giudiziaria e di sostegno alle vittime.
La Legge introduce aggravanti di pena nei casi di “violenza assistita” e in quelli in cui la vittima è in stato di gravidanza; si rafforza la misura cautelare dell’ammonimento del Questore e si interviene con l’allontanamento del violento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, con la possibilità – anche – di ricorrere a procedure di controllo con strumenti elettronici (braccialetto elettronico). Sono previste modalità protette per le testimonianze delle vittime e l’obbligo di informazione costante alla persona offesa relativamente alle fasi dei procedimenti penali.
Nell’immaginario collettivo la nuova Legge viene percepita come strumento “anti-femminicidio”, anche se nel nostro ordinamento non figura tale fattispecie di reato. Ciò che conta è la sostanza: la Legge punta a contrastare tutta la “filiera” degli atti minacciosi e violenti contro le donne; si vuole spezzare quella catena persecutoria e reiterata di sopraffazioni e soprusi, che può arrivare al femminicidio, l’omicidio di donna in ragione del suo sesso.
Le leggi da sole non bastano se non si modificano le mentalità e la cultura, se non si sradicano stereotipi e pregiudizi , se non si educa ai sentimenti ed alle rispetto delle differenze. Se non si opera quel necessario rovesciamento di prospettiva.
E rilevare i costi della violenza di genere come “prezzi” economici ed esistenziali, ci insegna che non si tratta di “una questione di donne”, né di un fatto privato – da abbandonare sulle spalle delle vittime – ma di una questione sociale, che deve essere affrontata come una responsabilità collettiva, in difesa di un bene comune.
[Fonte: www.siamopari.it]
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