La definizione di femminicidio, come tutte le definizioni, è inflessibile e categorica: la violenza perpetrata dagli uomini ai danni delle donne in quanto tali, compreso l’omicidio per motivi legati all’identità di genere. Ma come tutte le definizioni sembra zoppicare quando deve render conto dell’enorme varietà della casistica reale. Può essere considerato femminicidio la strage compiuta da Mario Albanese che, geloso della nuova relazione dell’ex moglie, ha ucciso lei, il nuovo compagno, la figlia e il fidanzatino? E il caso della madre uccisa dal figlio violento e con problemi psichici? Persino la rapina finita male di una prostituta o di un’anziana potrebbe nascondere un femminicidio: i rapinatori hanno scelto queste vittime perché donne e quindi bersaglio relativamente facile? E la violenza e l’accanimento su quei corpi sarebbero stati gli stessi se le vittime fossero state uomini? La definizione scricchiola. Soprattutto quando s’indagano menti che, spesso, vista l’efferatezza dei delitti, paiono comunque e sempre folli.
Per questo, dall’inizio dell’anno, stiamo monitorando sul nostro sito www.lastampa.it, il fenomeno delle donne uccise con violenza per cui sono indiziati degli uomini. Un lavoro ampio, una banca dati da interrogare e per interrogarsi, per cercare di approfondire un fenomeno che affonda le sue radici culturali in un terreno più ampio, e purtroppo più fertile di quanto si pensi e di quello che anche le definizioni ufficiali possono fornire. Ieri, con il caso di Marilia Rodrigues Silva Martins, siamo purtroppo arrivati a quota 100.
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