di Federica Seneghini
ROMA – «Per molto tempo ho sperato che mia figlia fosse morta». Seduto davanti al suo caffè macchiato, Maurizio Insidioso Monda parla con un filo di voce pieno di rabbia e frustrazione. Le mani scarne, nervose, le dita che spengono in fretta la suoneria del cellulare ogni volta che qualcuno lo chiama. Gli occhi consumati dalla disperazione. La bocca contratta in una smorfia asimmetrica, la barba malfatta. Le rughe e le borse che tradiscono il suo fisico asciutto e i suoi anni, che sono solo 44.
Siamo seduti a un tavolino del bar dell’Istituto di riabilitazione Santa Lucia. A Roma è uno di quei sabati grigi di novembre, con la pioggia fine che dà fastidio ma non bagna veramente. Sugli alberi del parco dei pappagallini verdi coprono con le loro urla le voci sommesse dei malati. Poco lontano alcuni ragazzi in sedia a rotelle prendono aria con la Gazzetta dello Sport aperta sulle ginocchia, i telefonini incollati all’orecchio per dire a qualcuno che «sì, non vedo l’ora di vederti, spero di tornare presto a casa».
Maurizio no, non spera più niente. Se ne sta seduto al tavolino del bar con la zip del giubbotto tirata su fino in cima, i pugni in tasca. Tra poco saranno quasi due anni che Chiara, sua figlia, vive come se fosse morta. Da quando, il 3 febbraio 2014, il fidanzato, Maurizio Falcioni, 35 anni, le ha spappolato l’esistenza a suon di calci in testa. Riducendola da ragazzina 19 enne innamorata del suo bulldog francese e della Lazio a oggetto inerme. Rimasta per nove mesi in coma e poi, dopo, in uno stato di minima coscienza. Oggi apre e chiude gli occhi, muove un dito e, a volte, segue con lo sguardo i familiari che la vanno a trovare. Di fatto, è poco più di un vegetale.
Quei pomeriggi in Curva Nord
«La nostra, prima, era una vita normale», spiega questo papà stanco. Che ora sorride, quasi, al pensiero di quei giorni di due, tre, mille anni fa. O forse sta per piangere, chi può dirlo. I pomeriggi al Multisala di Acilia a vedere «quei film tipo Harry Potter», una pizza ai funghi da mangiare allungati sul divano, o la musica della Pausini e dei neomelodici napoletani da ascoltare con le cuffie.
«A volte, dopo il lavoro, l’andavo a prendere a scuola e la portavo in palestra, era sovrappeso e doveva dimagrire. Ma lei odiava correre, fare pesi, muoversi», aggiunge Maurizio, mentre poco lontano alcuni infermieri infilati nelle loro tute bianche se ne stanno vicino alle porte a vetri a fumare. «Allo stadio invece mi portava lei. In curva Nord la conoscevano tutti. Gli ultrà, i tifosi. Quando arrivavamo, prima delle partite, era tutto un Chiara, Chiara vieni qui, Chiara. La domenica, i sabati, anche in trasferta. Andavamo con i pullman. A Napoli, Torino, Genova. Per questo negli ultimi mesi i tifosi l’hanno aiutata così tanto, con le iniziative per raccogliere denaro. Perché Chiara era una di loro».
Maurizio parla. Un’anziana cameriera lo osserva, ogni tanto, da lontano, come per controllarlo. Che vada tutto bene. Da quando sua figlia vive in apnea dentro se stessa, lui ogni giorno arriva qui alle 15, dopo il lavoro all’ufficio postale di Fiumicino. E lei ogni giorno, prima ancora che abbia il tempo di ordinare, gli prepara un caffè. Tutto bene, Maurì? Come andiamo oggi? Poi a cena, o quando ha fame, gli scongela una confezione di pasta di quelle già pronte, che vendono ogni tanto nei bar. Lui, rintanato in questa nuova famiglia, torna a casa ogni sera che fa già buio. E le luci della sua auto lampeggiano nel parcheggio quando la apre, come per salutarlo.
Con la moglie, Danielle Conjarts, sono separati da oltre dieci anni. Si incontrano solo qui. Lei, 44 anni, è nata a Maastricht e vive a Cerveteri. Ogni giorno arriva con 4 mezzi diversi, un viaggio che dura due ore e mezza ad andare e due ore e mezza a tornare. Quando saliamo su in camera Chiara è a letto, che fissa immobile la finestra. Alle pareti ci sono le foto di lei al mare con gli amici e tantissime figurine di Candreva, il suo calciatore preferito. La madre le sta seduta di fronte. Con Maurizio si salutano con un cenno. «A mia figlia parlavo solo in olandese», racconta la donna. «Pensavamo che, forse, conoscere due lingue l’avrebbe aiutata per trovare un lavoro, figurati».
«Sua figlia è viva»
Di quel lunedì di febbraio in cui Chiara è quasi morta, Maurizio ricorda soprattutto la rabbia.
Perché l’aggressione arriva al culmine di una lunga serie di maltrattamenti e violenze, psicologiche e fisiche, a cui Falcioni ha sottoposto la ragazzina, che soffriva di lievi disturbi mentali, sin dagli inizi della loro relazione. Una situazione di cui il papà era perfettamente a conoscenza, tanto da avere tentato per mesi a distogliere la figlia da questo «balordo».
Falcioni inizia a picchiare Chiara di mattina, nel locale caldaie dove se ne stanno rintanati, quando non sono a casa del padre di lui, che abita nello stesso palazzo. Quando i due vanno su per il pranzo, il papà di Falcioni nota che la ragazza è ferita al naso, ma non chiede niente. Nel pomeriggio le botte continuano per ore, sempre nel sottoscala. Falcioni a un certo punto trascina la giovane in strada, alla ricerca di un fantomatico amante. Poi tornano dentro e «il trattamento» ricomincia. Finché Chiara perde i sensi. Lui però non si ferma.
Continua a menarla anche così, semimorta. E poi, in preda al panico, chiede aiuto ai vicini, che chiamano il 118.
«Io ero al lavoro», ricorda Maurizio. «Stavo portando un pacco di raccomandate dagli aerei all’ufficio smistamento. Quando il mio amico Mario mi ha chiamato e mi ha detto che sotto casa di quell’idiota c’erano le ambulanze, ho pensato subito che Chiara fosse morta. E per tanto tempo, dopo, avrei preferito che lo fosse davvero. Poi mi hanno telefonato i carabinieri. Mi hanno detto che mia figlia era viva, non si preoccupi, signor Insidioso, di andare all’ospedale, ma io già lo sapevo cosa era successo, me lo aspettavo. Mi sono fatto l’A91 a 150 all’ora. La strada, il traffico, manco li vedevo. Pensavo solo: Chiara, Chiara, Chiara, che cazzo ti ha fatto, che cazzo ti ha fatto quel bastardo».
Quando Maurizio arriva al Grassi, l’ospedale di Ostia, Chiara però non c’è. Quel che si trova di fronte, invece, è il corpo di una ragazzina di 19 anni in coma, con il volto e il cranio tumefatti dai calci di quel pezzo di merda, che in tre ore di massacro «le ha spaccato la testa con quelle scarpe dure, quelle che usano gli operai per non farsi male, hai capito quali, no?».
Il processo è un incubo che tutto sommato dura poco. Falcioni sceglie il rito abbreviato. Legale famiglia Insidioso
Il 19 dicembre, in primo grado, gli danno 20 anni. Tentato omicidio pluriaggravato e maltrattamenti. «Una sentenza esemplare», secondo Massimiliano Santaiti, legale della famiglia Insidioso. Anche se per la mamma e il papà di Chiara non basterebbe una vita, o una morte, per compensare una figlia, l’unica, ridotta a corpo immobile, coperto dalle lenzuola bianche con stampato sopra il logo dell’ospedale come per ricordarti dove sei. In Appello, il 5 novembre dell’anno dopo, i giudici gli tolgono quattro anni. E Maurizio, per la rabbia, o l’emozione, sviene in aula.
«Quando Chiara ha riaperto gli occhi, dopo dieci mesi di coma, la gente, gli amici, mi chiedevano se fossi contento, che Chiara quindi sta meglio, no? mi facevano gli auguri. La verità è che tra il coma e lo stato vegetativo non cambia proprio niente. E io non ho provato nessun sollievo. Solo dopo, con questa minima coscienza in cui si trova ora, ho iniziato a essere felice che mia figlia non sia morta. Perché Chiara capisce tutto, eh, ora. Anche se muove solo le dita. E con le dita comunica la sua gioia, i suoi desideri, la sua voglia di vivere. Ancora, di nuovo, nonostante tutto».
Che dentro quel corpo immobile, ci sia in realtà una persona viva intrappolata, Maurizio l’ha capito dopo, il 16 marzo. «Me ne stavo seduto al bordo del suo letto, qui, in ospedale. Chiara c’aveva la testa reclinata sulla spalla, fissava il vuoto, come ora», dice, accarezzandole i capelli. «Poi a un certo punto le ho messo l’iPad sotto la faccia, ho aperto il sito di Gazzetta e ho schiacciato play. Lazio-Torino, all’Olimpico. Primo tempo 0-0. Poi, a un quarto d’ora dalla fine, Anderson tira in porta e la butta dentro. E Chiara, che manco l’avevo capito che stesse guardando lo schermo, dopo avere visto il gol mi fa una smorfia, contenta. Come a dirmi: Ahó, avemo segnato, a papà».
La vita, ora
Al Santa Lucia, è quasi sera. Dentro la 312 due infermieri stanno rassettando la stanza. Chiara si è addormentata. Noi scendiamo al primo piano, prendiamo le scale, facciamo i gradini lentamente. Che non c’è nessuna fretta e forse, nella vita di Chiara, non ci sarà mai più. Maurizio si appoggia un po’ al muro con la spalla, si ferma ogni tanto come a prendere fiato. A pensare.
Poi, davanti al solito bancone del bar, ordiniamo un caffè e un succo di frutta all’albicocca. «Ah Maurì, come andiamo oggi?», gli chiede un medico dall’altra parte della saletta, camice bianco sbottonato davanti e un crodino in mano. Lui fa un gesto con la mano: «Dopo vado in macchina a prendere la Nutella», risponde con un filo di voce. Prova a sorridere stirando un po’ la bocca, ma il sorriso gli esce male, come una ferita.
L’altro giorno insieme agli infermieri hanno provato a mettere un po’ di quella crema alla nocciola, che tanto piaceva a Chiara quando era piccola, sotto la lingua. Dopo la cena che, come ogni sera, lo staff del Santa Lucia le ha fatto entrare nello stomaco attraverso una Peg. Ed è stata una sorpresa. «Appena ha sentito il gusto le si è illuminato il volto, tutta questa parte del viso si è aperta in un sorriso», spiega il papà, tirandosi su una guancia con il dito.
Quando Chiara uscirà da qui, a metà dicembre, con barella e ambulanza la porteranno a Casa Iride, una «struttura di mantenimento» per pazienti in stato di minima coscienza vicino a Cinecittà. «Già il nome, eh? Struttura di mantenimento. Te fa capì…», dice Maurizio. E aggiunge: «Ma mica ce la lascio. Chiara deve tornare a casa. Ma ci vuole lo spazio, il letto ospedaliero, l’assistenza giorno e notte. L’hai vista la camera dove sta ora, no? Quanti metri saranno? Venti? Trenta? Io sto in affitto al quarto piano, Chiara non entra nemmeno in ascensore. Come faccio, figurati. Chiara non può fare manco pipì da sola».
Il Comune ha promesso che la casa, presto, ci sarà. Maurizio a giugno ha fatto la domanda, ha compilato i fogli, uno per uno, in stampatello, come c’era scritto di fare.
Poi li ha inviati agli uffici di competenza. E si è messo ad aspettare. Papà di Chiara
A settembre è arrivata la risposta: non ci sono alloggi disponibili compatibili con le necessità di Chiara. «Ci hanno abbandonato, senza risarcimenti perché Falcioni è nullatenente. E ora mia figlia ha solo una pensione di invalidità di 288 euro al mese».
Quando a inizio novembre, insieme alle telecamere de «La Gabbia», è andato a trovare l’assessore alle Politiche abitative, lei manco sapeva chi fosse. «Dopo il pasticcio con la giunta Marino, mi ha detto di avere passato le mie carte ai suoi collaboratori, di non preoccuparmi. Che Chiara avrà una casa. Ma io finché non lo vedo non ci credo», dice Maurizio.
Poi finisce di parlare, e resta in silenzio. Seduto al tavolino del bar fa un cenno con la testa alla cameriera. Che capisce e gli risponde con un sorriso. E, senza dire nemmeno una parola, gli mette sotto il naso un altro caffè.
Per aiutare la famiglia di Chiara si può fare una donazione utilizzando la carta Postepay numero 5333 1710 1345 1378 intestata a Maurizio Lazzaro Insidioso Monda, codice fiscale NSDMZL71P24H501N e Iban: IT09Q0760105138245619145623
[Fonte: www.corriere.it]
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