di Ettore Mo
Piccole prigioniere
Una delle prostitute all’interno del postribolo di Faridpur, lungo il fiume che attraversa la città.
A destra tre clienti in attesa.
Secondo I’Unicef, (l’ultimo dato risale al 2004), le prostitute minorenni in Bangladesh sarebbero 10mila: stime indipendenti ne contano invece fino a 30mila.
Reportage Un grande inviato nella città bengalese in cui un fiume tiene prigioniere le baby-prostitute
Sono circa 100mila le donne costrette a vendere sesso a pagamento in Bangladesh. Quelle che vivono a Faridpur non escono mai dalle stanze in cui sono obbligate a lavorare. Le più giovani devono anche prendere una pillola per sviluppare il proprio fisico, la stessa usata per le mucche. E quelle adulte sono vittime degli uomini che, per vendicarsi di qualche torto o per pura sopraffazione, le sfregiano gettando l’acido solforico sul loro viso
L’autore Ettore Mo è uno dei più noti reporter italiani, inviato speciale del Corriere della Sera. Ottant’anni compiuti da poco, vive a Dagnente, sulle colline sopra il Lago Maggiore.
“L’India è uno dei quattro Paesi più pericolosi del mondo per le donne”. Questa è la conclusione cui è giunto un team di scienziati ed esperti al termine di un’ampia e meticolosa inchiesta sulle condizioni socio-economiche del Paese. Affermazione che non manca di sorprendere, se si tiene conto che le tre più alte cariche dello Stato (presidente, primo ministro e speaker della Camera) fino a poco tempo fa erano in mani femminili, mentre è una donna il capo dell’opposizione. Ma esiste veramente un “campo” dove il fatto di essere donne e, come tale, esercitare la professione “più vecchia del mondo” comporta paure, rischi e pericoli che qui appaiono ancor più gravi che altrove: per cui non esiterei a includere il Bangladesh tra i quattro Paesi che costituiscono una perenne minaccia per il gentil sesso. E per conoscerlo meglio ho fatto un pellegrinaggio dal quartiere a luci rosse di Faridpur ai luoghi d’incontro della città di Daulatdia fino a quell’incantevole eremo che è l’isola di Bania Shanta, interamente popolata da prostitute. Non è quindi fuori luogo sostenere che il mercato del sesso è una delle fonti più cospicue dell’economia nazionale. Mercato libero. Tanto intensa è l’attività dei bordelli di Faridpur che, un giorno, il flusso dell’acqua nelle fogne cittadine è stato bloccato da una massiccia staccionata di preservativi. Ogni giorno a Daulatdia — il casino numero uno del Paese e uno dei più grandi del mondo —1.600 “sex workers” — ovvero operaie del sesso —”smaltiscono” 3.000 clienti. La pressione esercitata sulle autorità di Dhaka per far chiudere i postriboli è finita nel nulla. Così come è fallito anche l’ultimo tentativo quando iomila persone, istigate dagli integralisti islamici, si sono ammassate attorno al più grande bordello di Maridpur, che è anche il più longevo, coi suoi 150 anni, e dà lavoro a 500 ragazze. Per molte delle quali, il “mestiere” è una tradizione di famiglia, trasmesso in illo tempore dall’antenato alla bisnonna, quindi alla nonna e alla madre e giù giù sulle stesse ataviche lenzuola, fino alle nipoti e nipotine. Oggi, una mamma vende la propria figlia ai trafficanti del sesso (se il dato risponde a verità) per circa 20mila taka — circa 250 dollari — e questi provvedono a rivenderla, col dovuto compenso, al lupanare che ha bisogno di “carne fresca”, da dove non uscirà mai più. Chi rimane incinta — ciò che avviene spesso — spera di dare alla luce una bambina: che le resterà accanto fino all’ultimo giorno della sua vita e potrà così continuare la tradizione di famiglia. Non sembra esserci alternativa alla prostituzione, in Bangladesh: dove una bambina di neanche undici anni confessa di essere stata violentata da uno zio grosso e malvagio; o dove — da come riportano le cronache — le giovani e “maritalmente inappagate” signore dei postriboli, nascondono i piccoli sotto il letto affinché non sentano le urla e i gemiti del connubio con lo spasimante o col cliente di turno, che alla fine lascerà sul cuscino un bel mucchietto di taka. Nonostante le veementi proteste del clero e degli integralisti islamici, non sarebbero meno di 100mila le donne che nel Bangladesh offrono sesso a pagamento: che in media possono contare su una ventina di clienti per settimana. In pieno sviluppo l’industria dei preservativi, che avrebbe ridotto al minimo gli “incidenti sul lavoro” delle ragazze, il cui ingresso nelle “case chiuse” non sarebbe consentito prima dei 14 anni, anche se una legge del 1982 lo posticipa ai diciotto. Un fiume dl disperazione in queste pagine, l’interno delle case chiuse sull’isola con prostitute e barcaioli in attesa di trasportare i clienti. In Bangladesh la prostituzione è stata legalizzata nel 2000, tranne che per le ragazze al di sotto dei 18 anni. Molte di queste donne testimoniano che i guadagni finiscono quasi interamente nelle mani dei tenutari dei postriboli o dei loro protettori. Infanzie perdute. Ma quello dei 300 bambini che vivono tuttora nei bordelli accanto alle loro mamme, completamente ignari delle ragioni che li hanno costretti a trascorrere la propria infanzia in uno spazio tanto limitato e triste, è il dramma che più intenerisce e allo stesso tempo ti sconvolge: anche perché molti di loro sono vittime non solo della vicenda della prostituzione ma anche della guerra scatenata da mariti, amanti e fidanzati respinti che hanno deturpato per sempre il volto delle loro donne, alterandone orribilmente i lineamenti con spruzzate di acido solforico. Un gioco diabolico e crudele che produce un’infinità di mostri. Si raccontano storie incredibili: come quella di Durjoy, un bimbo di appena un mese nutrito con acido nel biberon e costretto a respirare attraverso un buco che gli era stato aperto in gola. Ma nessuno — ha ammesso la madre, Etie Rani — è stato assicurato alla giustizia e punito per un simile reato, per cui è prevista, dal 2002, la condanna a morte, anche se ogni anno vengono segnalati non meno di cinquecento attacchi contro minori. Il ricorso all’acido è un fenomeno in continua espansione fra i criminali del Bangladesh che cercano le loro vittime soprattutto fra i bambini e le donne. E non di rado i delitti vengono commessi fra le pareti domestiche: come è accaduto a una donna di 21 anni, Hawa Akther, sposata, cui il marito — Rafiqui Islam — ha tranciato di netto le dita della mano destra perché s’era iscritta a un corso di studi senza il suo permesso ed era evidentemente geloso del suo successo scolastico. Aveva preparato e compiuto con calma e precisione la sua operazione punitiva: legata e imbavagliata la moglie, si è servito di una scure da macellaio e ha buttato nel bidone della spazzatura quanto restava delle dita recise sotto le nocche, in modo che non potesse mai più dilettarsi con la scrittura. L’accusa che siano talvolta le donne stesse a provocare gli attacchi con un comportamento frivolo e disinibito come insegnano certi manuali sull’arte della seduzione, francamente non regge. «La nostra faccia è il nostro destino», commenta Monira Rahman, dello Asf (Acid Survivors Foundation) in funzione dal 2004. «Quando la si cambia, anche il nostro destino cambia. Le donne e le ragazze sono spesso così cheap (di poco valore) che gli uomini hanno la sensazione di poterle manipolare e distruggere come vogliono». Nei 17 bordelli del Bangladesh, tutti legalmente autorizzati a svolgere la propria attività, le ragazze più giovani, generalmente mingherline, prendono una pillola per dare maggiore consistenza e rotondità al proprio fisico, la stessa pillola che si dà alle mucche, appunto “cow pill”, pillola delle vacche, o meglio ancora, per rispettare il linguaggio scientifico, Oradexon. «Nelle case chiuse c’è anche il problema di centinaia di bambini, figli delle prostitute, costretti a vivere li tutta la loro infanzia» La sensazione che ho avuto, credo condivisa dal fotografo Luigi Baldelli, in questo esotico (ma non in senso estetico) pellegrinaggio tra bordelli urbani e rurali, è di una umanità sofferente e quieta, rassegnata al proprio destino. Il primo bordello in cui approdiamo è in realtà un villaggio molto esteso, di case basse a un solo piano con tetti di lamiera arroventati dal sole e lacere tende invece della porta e senza neanche una finestruola che faccia entrare un po’ di luce. Alcune abitazioni hanno i piedi in acqua, e lungo il selciato vedi donne che lavano energicamente i propri indumenti mentre altre indugiano in chiacchiere sui pontili e sulle barche. Sfregio all’esistenza. Dalla capitale Dhaka sono sufficienti cinque ore di macchina per raggiungere Shatkira, città del Meridione che qualcuno ha definito «museo delle sfigurate poiché nelle sue strade passeggiano non poche donne sul cui volto l’acido degli integralisti fanatici ha lasciato tracce. Alcune sono rimaste completamente cieche, altre totalmente sorde ed è molto difficile», commenta amaramente il Dr. Samanta Lal Sen, primario del Dhaka Medical College Hospital, «che si riesca a restituire la fisionomia originale a una donna o a un uomo i cui volti abbiano subito oltraggi e alterazioni davvero spaventose». È comunque molto amara la constatazione di Aminirzaman, funzionario di ActionAid, la grande organizzazione non governativa, quando affronta il problema della condizione delle donne nel Bangladesh, «ritenute fra le più disperate del mondo», e aggiunge che gran parte della responsabilità «debba essere attribuita all’immobilismo di un governo e di istituzioni che non hanno alcuna intenzione di ridimensionare il ruolo del maschio, che qui non ha una moglie ma una schiava, come sono schiave le sue figlie e come lo saranno le sue nipoti». Sarebbe tuttavia scorretto ignorare che ci sia stato qualche non lieve cambiamento: solo qualche anno fa sembrava impossibile che in queste remote regioni asiatiche la donna potesse accedere all’università o che il suo salario fosse equiparato a quello del marito fino all’ultimo centesimo. Tuttavia ancora sopravvive il maschio che taglia le dita alla moglie perché non gli ha chiesto il permesso di frequentare l’università.
Corriere della Sera Sette – L’isola a luci rosse dove per uscire puoi solo morire
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