di Ettore Mo
Non sembra esserci alternativa alla prostituzione nella città di Faridpur e nell’isola di Bani Shanta, interamente popolata dalle «sex workers». Bambine di undici anni costrette a prendere l’Oradexon, un farmaco usato per gonfiare le mucche, perché i clienti le vogliono più floride.
II 90 per cento delle giovani prostitute del Paese ricorre alla «cow pill» che ne accentua le curve ma provoca il diabete e l’invecchiamento precoce Gonfiate con le pillole per le mucche a 11 anni.
Le schiave del sesso in Bangladesh. Vendute dalle famiglie, ingrassate con farmaci steroidei. Sono le «operaie» dell’industiia nazionale: i bordelli.
I numeri: Hashi, una ragazza di 17 anni costretta a prostituirsi da quando ne aveva dieci: «Sono in grado di intrattenere e soddisfare ogni giorno un bel numero di clienti, talvolta fino a quindici».
FARIDPUR (Bangladesh) – Fanciulle di undici-dodici anni vittime di stupri quotidiani.
Ragazzine che ogni giorno si accoppiano con cinque-sei uomini diversi per qualche soldo da portare a casa, a sostegno del magro bilancio familiare. Incessante, inoltre, l’attività dei bordelli legalmente autorizzati della città di Faridpur (due ore di macchina a sud-est della capitale) dove un migliaio di prostitute è al lavoro sette giorni la settimana, senza tregua. Così come avviene nell’isola di Bani Shanta, interamente popolata dalle «sex workers», le così dette «operaie del sesso», che alleviano la solitudine di turisti, marinai, scaricatori di porto e miriadi di sfaticati di ogni genere. In realtà, i dati delle statistiche sulla prostituzione – che sembra essere la maggiore «industria» del Paese – vanno continuamente aggiornati: e non dev’essere stata poca la sorpresa – anzi, lo stupore – per i forestieri di passaggio quando, tempo fa, appresero dai giornali che il flusso dell’acqua nelle fogne era stato inesorabilmente bloccato da una «barriera di preservativi». Nel primo giorno del mio non mistico pellegrinaggio busso alla porta del Ghat Brothel, casa d’appuntamenti sulla riva del Gange, che qui prende il nome di Padma. Le due signore che lo gestiscono – Rokeya, cinquant’anni, e Aleya, quaranta – sono impegnate nella lotta per la riabilitazione delle prostitute: che hanno avuto la riconferma del diritto di voto e che da ora possono uscire con le scarpe ai piedi. Sono pure riuscite a far aprire un cimitero musulmano (per seppellire degnamente le consorelle islamiche) e a ottenere che le ceneri delle donne Indù, bruciate sul rogo, vengano sparse nelle acque del fiume sacro. In vetta alla graduatoria dei postriboli del Bangladesh si impone quello di Daulatdia – uno dei più grandi del mondo -, forte di un esercito di 1.600 donne, che ogni giorno provvedono a spegnere gli ardori di circa tremila uomini. Il bordello ha le dimensioni e la struttura di un vero e proprio villaggio, qual è nella realtà: con tutte le casette a un solo piano schierate lungo le strade e i vicoli che l’attraversano e i negozi e le botteghe degli artigiani sempre aperti. Un’atmosfera festosa e, a volte, un po’ sguaiata, da carnevale. Ma la gente sembra felice: come sono felici, in apparenza, le «sex workers» che non hanno neanche il tempo di rifarsi il trucco, visto il fiume di clienti che i rickshaw scaricano in continuazione davanti ai loro tuguri. Il dilagare della prostituzione nel Bangladesh è senza dubbio un fenomeno che gli stessi abitanti non esitano a definire «repellente», anche se comporta una serie di vantaggi economici immediati: ma per spiegarlo occorre ricordare che dalla metà degli anni Settanta quasi il 5o per cento della popolazione – 140 milioni di abitanti – continua a vivere sotto la linea della povertà. Situazione sofferta anche dalle operaie del sesso, costrette a versare la maggior parte dei loro guadagni alla sardarnis, la padrona del bordello. Fornitrici della manodopera locale sono per lo più le famiglie dei contadini ridotti in miseria che vendono le figlie per soli 20 mila taka (circa 245 dollari). E il caso di Eiti, 25 anni, che da 6 è ospite del Ghat Brothel, dove la madre infermiera, disoccupata e senza spiccioli nel salvadanaio, l’ha scaricata; e di Lima, 13 anni appena compiuti, che nell’Istituto ne ha già trascorsi due, ma «come una detenuta, perché questo non è un ospizio, è un carcere a tutti gli effetti, mancano solo le sbarre alla finestra». Bisogna inoltre tener conto che l’alloggio nei «lupanari» della città – da quelli di 5 stelle al centro alle case-tende-capanne della periferia – non viene offerto gratis: e per pagare l’affitto, la luce, l’acqua, il cibo e quant’altro occorre per un’esistenza decente, le «sex workers» devono avere rapporti quotidiani con almeno quattro o cinque clienti. Insomma, «una vita da cagne», come ha scritto sgarbatamente qualcuno. Si rimane perciò sorpresi quando, varcando la soglia di un edificio di quattro piani come il Town Brothel, trovi decine e decine di ragazze accovacciate nei corridoi che mangiano e bevono allegramente e qualcuna osa perfino invitarti nella sua «cuccia» per un tè o una Coca Light. Grazie, no. Sono di fretta. Ci sono poi anche quelle – le più sfortunate – che pur avendo lavorato tutti i giorni, per anni, non intascheranno neanche un centesimo di taka: è il destino delle Chukri, prostitute vendute dalla nonna, dalla mamma o dalla suocera, i cui miseri salari sono andati a impinguare il ventre delle sardarnis. Ma a quel punto, anche se hanno tolto loro le catene, che farsene della libertà? Andarsene? La società non sarà mai pronta ad accettarle. Meglio aspettare qui, la morte sarà più dolce.
Un altro capitolo doloroso, ancor tutto da scrivere, riguarda la presenza dei bambini in un bordello del Bangladesh, dove almeno trecento avrebbero trascorso qualche mese (se non qualche anno, i dati di cui dispongo sono incerti) della loro infanzia. «Fu un’esperienza terribile – ha raccontato una donna detenuta nel postribolo di Faridpur -. Quando arrivavano i clienti, nascondevamo i piccoli sotto il letto o li spingevamo fuori a giocare, nel corridoio, perché non vedessero». In città c’è una scuola riservata esclusivamente ai figli delle prostitute, dove tra l’altro vengono impartite, per chi ne abbia il talento, le prime, elementari lezioni di danza classica: e quella mattina, venticinque alunni – 13 bambine e 12 maschietti – hanno deliziato le loro mamme con un balletto in costume che la diceva lunga sulla speranza di un completo riscatto, che avrebbe loro consentito di partecipare, a pieno diritto, alla serata di gala della vita. Diversamente da quanto avviene in tutte le altre parti del mondo, le donne del Bangladesh non ambiscono a mantenersi filiformi, dal momento che ai loro uomini piace la «femmina in carne», con le dovute curve e rotondità. Perciò ricorrono assiduamente all’Oradexon, un farmaco che viene dato anche alle mucche perché raggiungano il giusto peso e adeguate dimensioni fisiche e viene appunto chiamato cow pill, la pillola delle vacche. Questa la medicina che la sardarnis di un bordello impone alle sue sei «operaie» sottoposte a una ferrea disciplina anche se si rivolge a loro affettuosamente chiamandole «figlie» e «bambine». L’effetto taumaturgico dell’Ora-dexon è stato più volte decantato dalle giovani prostitute, come conferma Hashi, una ragazza di 17 anni che intraprese la sua «avventura» quando ne aveva solo dieci (proprio così) e adesso lavora a tempo pieno in un bastione di Kandapara, una città labirinto a nord-est di Dacca: «Tu non lo puoi immaginare – esordisce -, ma c’è una grande differenza fra il mio aspetto attuale e quello della bambina gracile e denutrita dell’infanzia. Ora godo di un’ottima salute e sono in grado di intrattenere e soddisfare ogni giorno un bel numero di clienti, talvolta fino a quindici». Secondo dati forniti dall’Organizzazione non governativa ActionAid, che si occupa a tempo pieno del Bangladesh, il go per cento delle prostitute del Paese ricorre costantemente all’Ora-dexon nell’arco di età fra i 15 e i 35 anni. Ma gli steroidi della pillola – ammoniscono gli esperti – comportano anche effetti negativi come il diabete, la pressione alta, gli sfoghi cutanei e il mal di testa: occorre quindi farne uso con la massima cautela. Lo spinoso argomento non può essere tuttavia accantonato senza ricordare che, tra le sue magie, la cow pill ha pure la facoltà di invecchiare gradualmente le ragazzine di 13, 14 e 15 anni che dovrebbero aspettare i 18 per intraprendere – come stabilito dalla legge – la carriera di famiglia così tenacemente onorata da trisavole, avole, bisnonne, nonne e mamme, oltre a una schiera infinita di zie e nipoti afflitte da incredibili longevità. Nel pomeriggio le strade sono quasi deserte e le poche persone che incontri rispondono al saluto con l’accenno di un sorriso o piccoli gesti del capo e delle mani. Pochi gli uomini che invece la sera sciamano lungo i vicoli appena illuminati del villaggio-bordello, dirigendosi verso il rettangolo di luce di una porta aperta dietro la quale s’intravede una stanzuccia dove c’è posto solo per il letto. Hai l’impressione di assistere a una funzione liturgica quaresimale celebrata sottovoce. Contrariamente a quanto avviene in Occidente, dove gli alterchi fra le prostitute di uno stesso quartiere non sono radi, qui non sembrano affiorare né rancori né sussulti di competizione professionale. E come potrebbe essere altrimenti se, per tradizione millenaria, il mestiere è passato dalle mani della madre e quelle della figlia? La conclusione è amara. Non sembra esserci alternativa alla prostituzione nelle città di Faridpur e Kandapara, la cui effimera vitalità è assicurata solo dai bordelli: e ancor meno nel postribolo sull’isola di Bani Shanta, il più incantevole dei rifugi per eremiti in cerca di pace, dove invece t’imbatti in anziane operaie del sesso a corto di clienti, povere, malate, rinsecchite come alberi nel deserto. Se metti un taka nel palmo della loro scarna mano, non lo respingono. «Se anche riuscissi a fuggire dal Ghat Brothel – ha confidato un giorno una vecchia signora a un sacerdote che le aveva fatto visita nel bordello-prigione di Faridpur -, dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e certo non mi rivogliono indietro. Sono la pecora nera della famiglia.
Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire». «Il Bangladesh è un Paese povero – dichiara Aklima Begum Akhi, capo dell’Associazione operaie del sesso di Tangail – e le ragazze dei bordelli sono le più povere di tutti noi: anche perché non riusciranno mai a liberarsi dagli effetti negativi della cow pill». Ma l’ultima immagine che riporto indietro dall’isola di Bani Shanta mi rasserena un poco. È l’apparizione di una splendida, giovane signora che corre a piedi nudi lungo l’argine come fosse una passerella, svelta e leggera e con le braccia distese come ali, e non finisce mai di correre.
La mappa
La soglia di povertà iI Bangladesh ha una popolazione di circa 140 milioni di abitanti. Quasi il 50 per cento vive sotto la soglia di povertà. La prostituzione è stata legalizzata nel 2000. Secondo stime le prostitute nel Paese sono circa 100 mila; le donne vendute all’estero negli ultimi vent’anni sarebbero oltre 200 mila. Nel 2004 l’Unicef calcolava in 10 mila le prostitute minorenni, stime indipendenti arrivano a 30 mila.
Corriere della Sera – Quelle bambine vendute ai bordelli
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