di Paolo Borgna
Questa domenica è la giornata dedicata dall’Onu alla lotta contro la violenza alle donne; fenomeno in espansione in Italia, dove, da inizio anno, più di cento son state le donne uccise per mano di un uomo che non sopporta d’essere lasciato ovvero di un capofamiglia che non accetta i comportamenti di autonomia della figlia. Le raccomandazioni Onu su ciò che anche il nostro Paese dovrebbe fare sono precise: raccolta dei dati, lotta agli stereotipi, formazione professionale, finanziamenti stabili e sicuri ai centri antiviolenza e aumento del numero di case rifugio, monitoraggio dell’efficacia delle politiche esistenti. Nei giorni scorsi la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, ha presentato un disegno di legge (subito etichettato «ergastolo per il femminicidio») che prevede per l’omicidio specifiche aggravanti che comportano il carcere a vita («in reazione a un’offesa all’onore proprio o della famiglia di appartenenza o a causa della supposta violazione, da parte della vittima, di norme o costumi culturali, religiosi o sociali ovvero di tradizioni proprie della comunità d’origine»; ovvero se l’omicidio è preceduto da annidi maltrattamenti). Sono ottime tutte le iniziative che vogliono approfondire e aggredire le cause del fenomeno. Come magistrato, con oltre trent’anni di esperienza, ho però un dubbio: la proposta di ergastolo senza eccezioni è davvero utile e ci aiuta a intaccare le cause profonde del fenomeno? O serve solo ad appagare il nostro senso di frustrazione di fronte a questo dramma? L’esperienza giudiziaria insegna che questo genere di omicidi è compiuto da uomini che sono perfettamente consapevoli di andare incontro a lunghi annidi carcere; un distorto senso di “amore” (che in realtà prende la forma della pretesa di possesso assoluto della donna) li ha già sospinti, prima di uccidere, in una caverna di fortissimo dolore, che si fa insopportabile. Preferiscono andare in carcere (non importa per quanto) piuttosto che continuare a soffrire. Tant’è che spesso, subito dopo, si costituiscono. Sia chiaro: questa non è una giustificazione ma piuttosto una constatazione. Per questi assassini la prospettiva di rimanere in carcere a vita piuttosto che per 24 anni (tale è la pena per l’omicidio non aggravato) non cambia nulla. Il lavoro di prevenzione è ben più difficile: occorre scardinare la pretesa di possesso assoluto di questi uomini, che il più delle volte non è che la risposta di cortocircuito della loro incapacità di vivere da individui autonomi. Molto più pragmaticamente il legislatore si è mosso davanti al fenomeno meno grave – ma odioso e a volte preludio di fatti più gravi – degli atti persecutori (il cosiddetto stalking): ha previsto che, dopo la denuncia, il molestatore subisca una formale diffida da parte della polizia con il divieto di avvicinarsi alla sua vittima (violando il quale andrà in carcere). Questi contatti fra il molestatore e l’autorità pubblica sono spesso in grado di stimolare un percorso di maturazione e ripensamento che vanno alla radice del fenomeno. Un’ultima riflessione. Forse le cause di possessività/fragilità dell’uomo molestatore e potenziale omicida vanno pure ricercate nel tipo di educazione affettiva che i figli maschi ricevono dalle proprie madri (educazione più protettiva e meno emancipativi di quella che ricevono le figlie femmine: che non a caso – ribaltando i costumi del passato – sono oggi più capaci di autonomia dei loro coetanei maschi). Nel volume con cui, nel 1975, Carlo Cardia commentava il nuovo diritto di famiglia, il professore ci insegnò che quella nforma coronava una profonda mutazione del «comune sentire» in materia di famiglia e di rapporti tra uomo e donna. Una mutazione lenta, fondata sui principi di parità, dignità e solidarietà; e nutrita dall’incontro e reciproco rafforzarsi delle migliori tradizioni delle culture civili e religiose del nostro Paese, che di gran lunga avevano sopravanzato le vecchi leggi. Di quell’incontro abbiamo di nuovo bisogno: per ragionare sulla famiglia, sui nostri figli, sull’educazione che diamo loro, sui valori che siamo capaci di trasmettere.
Avvenire – Più che le pene dobbiamo aumentare il «comune sentire» del rispetto
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