di Gabriella Cotta
Gli effetti delle pretese di negare la realtà naturale e affermare identità fluide
C’è un tema di enorme importanza del nostro tempo, soggetto a inspiegabili fluttuazioni, ora ai primi posti sui media, ora del tutto trascurato, in un’alternanza difficile da spiegare. Il tema è quello della donna e dei suoi diritti. Eppure, non c’è dubbio che oggi sia dominante, per le proporzioni numeriche e la gravità dei problemi che lo connotano. La vicenda di Malala, la studentessa pachistana che ha osato sfidare i taleban per affermare il proprio diritto allo studio, la sparizione, per aborto selettivo o infanticidio, di milioni di donne in Asia – dai 100 milioni in su –, la vicenda della studentessa indiana stuprata fino alla morte, i crescenti casi di uccisioni di donne in Italia in questi ultimi anni, indicano che la questione della violazione dei diritti delle donne dovrebbe essere posta al centro di ogni agenda politica, nei Paesi asiatici come nel nostro. Oltre a interrogarsi sul potenziale economico non sviluppato in Italia a causa dell’insufficiente impegno lavorativo delle donne, sarebbe il caso di riflettere anche sulla questione della evidente difficoltà dell’universo maschile di considerare la donna come dotata di uguale dignità e diritti. Colpisce perciò il paradosso di un Paese come il nostro in cui i gruppi di pressione per i diritti degli omosessuali sono fortissimi e riescono a occupare i media ben al di là della loro effettiva consistenza numerica, mentre non riescono a emergere gruppi altrettanto forti che si oppongano, per esempio, all’utilizzo dell’immagine femminile come una vera e propria merce, contrastando l’umiliante primato italiano in Europa. Eppure, il pensiero femminile/femminista ha ormai una lunga e corposa storia, nel mondo e in Italia, e sempre crescente è il numero delle studiose che lo diffondono. Il fenomeno, almeno parzialmente, può essere letto alla luce dell’esplosione di tutti i modelli di riferimento “tradizionali” riguardanti la dialettica uomo/donna, accanitamente contestati da decenni di pensiero post-metafisico, debole e decostruttivista. In questo senso, gli insegnamenti di Foucault circa la «morte dell’uomo» (e della donna naturalmente) come soggetto dotato di una consistenza sua propria, e la tesi della creazione, da parte del potere/sapere dominante, di soggetti mutevoli nelle connotazioni perché espressione di disposizioni di chi governa le società, ha aperto a una lettura della politica come bio-politica: cioè, appunto, governo/costruzione dei corpi e dei soggetti. In questo processo, l’avvento di una tecnica sempre più potente è stato, com’è immaginabile, un elemento di rafforzamento esponenziale della lettura appena richiamata, dotandola di un potere immediato e decisivo sulla conformazione/fabbricazione/ modificazione dell’individuo “umano” in quel progetto prometeico che Benedetto XVI ha stigmatizzato anche nel suo recente discorso a Cor unum. Ultima deriva di questa tendenza sono le teorie e le prassi del cyborg, incrocio artificiale di corpi ed elementi biotecnici. In un clima così, la parte del pensiero femminista che trova più eco mediatica – ed è, dunque, più influente – si è allineata perfettamente al pensiero unico dominante della negazione di ogni realtà della «tradizionale» appartenenza uomo-donna. Judith Butler, per esempio, ricusando le rivendicazioni ugualitarie del femminismo d’antan, pone, a fondamento di un’etica libera da ogni forma di violenza, il tema del decentramento di sé e della rinuncia a ogni identità “forte”, nel continuo costituirsi e destituirsi di un soggetto che solo a partire dalla chiamata interlocutoria dell’altro acquista una propria identità. Un’identità perciò, fluida, aperta, dipendente, costituita dalla relazione all’altro e dalla mutevole opzione – in materia di scelta di appartenenza sessuale – del proprio desiderio. Il problema da cui siamo partiti, circa l’incertezza e la poca efficacia con cui si difendono i diritti delle donne, in Italia ma non solo, acquista ora una maggiore chiarezza: come difendere i diritti di soggetti nei cui confronti si opera un’azione di continua dissoluzione identitaria? Questa difficoltà pesa tanto di più nel caso della donna, alla quale – per disgraziata tradizione – già si imputava un’identità più “debole” a fronte di quella maschile. Molto più capace di suscitare consensi, invece, appare oggi il rivendicazionismo di quei soggetti pienamente conformi alla linea decostruttivista perché orientati dalla mobilità del desiderio: gay, lesbiche, bisessuali, transgender e intersessuali. Ecco perché, per difendere le donne e i loro diritti e consentire il pieno sviluppo delle loro potenzialità, è necessario recuperare la capacità di reciproco ascolto fra identità certe dei propri profili e, proprio per questo, pienamente libere.
Avvenire – La debolezza delle donne
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