Donne chiuse in casa con il proprio aguzzino: nel periodo del lockdown le richieste d’aiuto da parte delle vittime di violenza in famiglia sono cresciute del 73 per cento. Nei giorni della quarantena, almeno otto sono state le vittime di femminicidio. Sono gli ultimi dati arrivati sulla scrivania della senatrice di Fratelli d’Italia Isabella Rauti dal suo osservatorio della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulle violenze di genere. Un tema che le sta da sempre molto a cuore. Anche perché, come rivela a Leggo, anche lei da ragazza è stata vittima di violenza.
La casa è sempre più una trappola?
«Sì, il lockdown ha acuito l’isolamento domestico di moltissime donne».
Qual è la portata del fenomeno?
«Incrociando le rilevazioni ministeriali con le relazioni fornite dalla rete D.i.Re, Differenza Donna, Telefono Rosa, Progetto Viva, è emerso che durante il lockdown è aumentato il numero di richieste di consulenza legale arrivate al numero anti violenza 1522. Allo stesso modo, mentre sono diminuiti atti persecutori e violenze sessuali, sono aumentati i maltrattamenti in famiglia. Ma a fronte dell’aumento di richieste d’aiuto, le denunce sono diminuite del 43,6%».
Come va interpretato questo dato?
«Nella condizione di coabitazione forzata, le donne hanno chiesto meno aiuto per l’impossibilità materiale di farlo. Inoltre, si è interrotto il rapporto tra centri d’ascolto (solo il 32% ha continuato a operare in presenza), ospedali e tribunali ordinari. Anche questo ha generato una sorta di chiusura in se stesse».
La situazione poteva essere gestita diversamente?
«Io credo di no. Il numero 1522 e l’app sono state pubblicizzate dal Viminale con due circolari, e ne è stata inviata anche una ai prefetti per trovare nuovi alloggi alle donne in situazioni di criticità».
Quanto sono stati utilizzati questi strumenti?
«Le chiamate al 1522 sono aumentate del 73%. A calare nella prima metà del periodo analizzato è stata la richiesta di nuovi contatti da parte di donne che non si erano mai rivolte ai centri (nella normalità sono il 78% del totale), per poi risalire del 30% nel secondo periodo. Molto utili sono state le chat, che hanno consentito alle vittime di eludere la sorveglianza in casa».
Quindi l’Italia ha fatto abbastanza?
«Si poteva fare di più. Le risorse per i centri anti violenza sono state sbloccate solo ad aprile perché non c’è stata la possibilità di riunire la conferenza Stato-Regioni che si occupa di distribuirle. Si sarebbe potuto anche creare un fondo presso la presidenza del Consiglio dei Ministri per il sostegno alle vittime di violenza».
Qual è la situazione negli altri Paesi?
«Secondo l’Unfpa, agenzia delle Nazioni Unite, nei tre mesi di lockdown tutti gli stati membri hanno registrato un incremento del 20% per quanto riguarda violenze domestiche e femminicidi. A Wuhan c’è stato un aumento netto delle violenze in casa. Così anche in Tunisia. Un mondo che attraversa il mondo, nessun paese escluso».
C’è un caso che l’ha colpita particolarmente?
«Tutte le storie sono diverse e uguali nella loro drammaticità. Potrei citare Lorena, studentessa 27enne che sognava di diventare medico, uccisa dal fidanzato. O l’anziana donna di Firenze, uccisa dal marito che poi si è suicidato».
Chi commette femminicidio spesso poi si suicida. Perché?
«L’omicidio di una donna in ragione del suo essere donna è un atto estremo, l’ultimo di una serie di violenze, attraverso il quale l’omicida si libera della sua ossessione. A quel punto è come se non avesse più altro scopo nella vita».
È necessario un cambio di mentalità?
«Le leggi da sole non bastano se non sono accompagnate da una rivoluzione culturale, di educazione al rispetto e ai sentimenti. Bisogna sostenere le donne in un percorso di reinserimento sociale, ma occuparci anche del recupero dell’uomo violento e maltrattante attraverso appositi centri».
Lei ha mai subito violenza?
«Sì, a 20 anni. Il mio fidanzato, che non era mai stato violento ma stava vivendo un momento traumatico, mi diede due schiaffi durante un litigio».
Come ha reagito?
«È stata una deflagrazione. Una frattura interiore profonda, insanabile e determinante nella decisione di lasciarlo».
Quali campanelli possono mettere in allarme una donna?
«Qualsiasi mancanza di rispetto. Uno schiaffo non è un buffetto. Uno schiaffo è inaccettabile e spesso è solo il primo atto di una serie. I tratti ricorrenti nell’identikit del violento maltrattante sono sempre uguali: controllo ossessivo della privacy, senso di possesso, svilimento del partner».
Come ci si può difendere?
«Chiedendo aiuto. A scuola e in famiglia per le adolescenti, ai centri preposti e ai numeri di pubblica utilità per le donne che subiscono nell’ambito della coppia. E avere fiducia, perché verranno indirizzate legalmente, sostenute psicologicamente e – se la situazione lo richiede – messe in contatto con le forze dell’ordine».
Eppure molte vittime di femminicidio avevano già denunciato. Cosa non funziona nel sistema?
«La lacuna non attiene al mancato intervento delle forze dell’ordine, ma al percorso farraginoso relativo a aspetti processuali. La legge “Codice rosso” ha introdotto il regime d’urgenza: la vittima deve essere ascoltata dal pm entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato».
Che cosa può fare chi viene a conoscenza di un episodio di violenza?
«Non voltarsi dall’altra parte: la media degli abusi è talmente alta che ognuno di noi ha un’amica o parente vittima. Si possono fare denunce anonime, aiutare le vittime a raggiungere l’aiuto o rivolgersi alle forze dell’ordine».
Ilaria Del Prete, Leggo.it
[Fonte: www.lamescolanza.com]
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