di Chiara Palmerini
La pratica delle mutilazioni genitali femminili, diffusa in Africa, viene mantenuta in Italia dalle comunità di immigrati. Anche se vietata e pericolosa. Lo denundano le storie presentate a un convegno.
Di solito succede tra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle medie. Gli insegnanti se ne accorgono da alcuni segnali, anche se spesso non sanno come interpretarli: le bambine impiegano tanto tempo al bagno per fare la pipì, smettono di fare ginnastica, camminano in modo strano. La pratica delle mutilazioni genitali femminili, ossia I’infibulazione (asportazione del clitoride, delle piccole labbra vaginali e di parte di quelle grandi e successiva cucitura), diffusa in molti paesi dell’Africa subsahariana e in Medio Oriente, non resta confinata. Le comunità di immigrati mantengono queste usanze anche qui, come raccontano storie e filmati raccolti dagli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano, che verraranno presentati al convegno «Bimbe negate» il 9 ottobre: giornata mondiale per i diritti delle bambine indetta da Soccorso rosa e Terres des hommes. Le figlie delle immigrate, soprattutto egiziane, quando arriva l’età «giusta» vengono ricondotte nei paesi d’origine per essere sottoposte a questi interventi, che spesso sfociano in infezioni, emorragie, danni permanenti. In Italia l’infibulazione è vietata dal 2006, ma continua a essere diffusa: le stime (non esistono dati certi) parlano di 30-35 mila donne infibulate, e di 2-3 mila bambine a rischio di esserlo. «Ciò che ci ha sconvolto» dice Nadia Muscialini, responsabile del Centro soccorso rosa del San Carlo di Milano e tra le autrici del rapporto, «è che pensavamo che le mutilazioni fossero osteggiate dalle madri delle bambine, che avevano a loro volta dovuto subirle. Invece sono le prime a spingere perché le figlie vi vengano sottoposte». II lavoro per gli operatori è fare capire alle donne che, in terra di migrazione, il danno fisico non è neppure compensato dalla maggiore accettazione sociale, ma è motivo di stigma ed emarginazione, come viene sottolineato nel vademecum per operatori sanitarie insegnanti, preparato dalla Regione Lombardia.
3000 bambine figlie di immigrati, in Italia, sono a rischio di infibulazione, secondo le stime.
Vi racconto di Saphia, che si è ribellata
di Stella Pende
Ho lavorato e scritto sull’infibulazione. Girato l’Africa con Emma Bonino. Poi a Torino, nel 2000, un incontro fatale. Si chiamava Saphia, una bambina eritrea coraggiosa: «Un giorno la nonna ha chiuso mia sorella Aisha nella stanza da letto. Sul letto vecchi stracci e un coltello. La nonna diceva: “Spogliati ma tieni le calze. È il colore del sangue: quello della tua festa oggi”. Sentivo gli urli di Aisha II sangue ovunque, rosso come le calze». Quando è toccato a lei, si è ribellata. «Mi sono chiusa in bagno e ho bruciato le tende. Mi hanno salvato i vicini». Ma quante come lei saranno festeggiate dalla lametta della nonna arrivata in Italia con la valigia piena di odio e nostalgia per quella tradizione orrenda? Quante dovranno dare il loro dolore, il sangue, per non diventare «donne»? Troppe
Panorama – Salviamo le bambine da questo orrore
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