di Isabella Rauti
Tre anni fa, in Italia, entrava in vigore la legge n. 7 del 9 gennaio 2006, contenente “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile; così veniva introdotto, nel codice penale, tale nuovo reato (con l’aggiunta dell’articolo 583 bis) punito, per chi cagiona la mutilazione degli organi genitali femminili, con una pena da quattro a dodici anni.
Ma dal varo della Legge non è stato celebrato nessun processo.
La prima parte della Legge prevede azioni di prevenzione; la seconda parte, gli aspetti sanzionatori; la normativa delega al Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio il coordinamento delle attività svolte dai Ministeri competenti dirette alla prevenzione, assistenza alle vittime, informazione ed eliminazione delle pratiche mgf”.
Il 6 febbraio prossimo ricorre la Giornata mondiale per l’eliminazione delle Mutilazioni genitali femminili (MGF) ma, di tutto questo se ne parla poco; si tende a sottovalutare la dimensione quantitativa del fenomeno e soprattutto si è portati a considerarlo come un problema geograficamente lontano da noi e dalla nostra realtà occidentale. Invece, il fenomeno, che è un ”fatto culturale ed etnico” – per effetto delle catene migratorie – è diventato globale e sta interessando anche Medio Oriente ed Europa.
E’ vero che la patria principale del fenomeno escissorio é e resta l’Africa, in particolare l’Area sub- sahariana (91,5 milioni di vittime. Dati OMS) e l’ Egitto ma, la diffusione riserva sorprese, infatti sono alti i numeri dei casi (operati clandestinamente) in Europa e in Italia; e la pratica delle MGF trova riscontro anche in Medio Oriente, in alcuni Paesi asiatici (come l’Indonesia e la Malesia) e negli Emirati Arabi Uniti.
Pur in assenza di statistiche complete, si stima – lo fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità - che nel mondo siano tra i 120 ed i 140 milioni le bambine (ma anche le neonate), le ragazze e le donne che hanno subito una forma di mutilazione genitale ed ogni anno sono almeno 3 milioni le nuove vittime. Qualche altro dato, disaggregato: sono 40 i Paesi in cui si pratica la mutilazione; il 97% delle donne egiziane sono escisse ed il 94% delle somale sono infibulate.
Non stiamo parlando, come si diceva una volta, di “circoncisione femminile” ma di mutilazioni . Si tratta di interventi eseguiti da donne, una sorta di levatrici tradizionali, senza anestesia, con mezzi rudimentali, senza precauzioni igieniche ed osservanze sanitarie; anche se esiste- sostengono gli esperti – una nuova realtà di “medicalizzazione” per le MGF, dovuta ad un’accresciuta consapevolezza delle implicazioni negative per la salute della donna. Nei casi di MGF gestiti da personale dotato di formazione sanitaria, il dolore della pratica viene diminuito ed anche alcune conseguenze e complicanze ma non si modifica il quadro generale di lesione dei diritti umani.
La tipologia di intervento mutilatorio varia da Paese a Paese ed a seconda del gruppo etnico di appartenenza; schematizzando si potrebbe dire che, nella grande maggioranza dei casi la pratica del “taglio rituale” prevede l’escissione, con l’asportazione parziale o totale del clitoride e delle piccole labbra ; in misura percentualmente minore ma non residuale, si opera la forma più cruenta, la cosiddetta “infibulazione” (dal latino fibula: spilla), con l’ asportazione anche delle grandi labbra e la cucitura dei due lati della vulva, che ha lo scopo di lasciare solo una piccola apertura nell’estremità inferiore . Gli interventi condannano le donne non solo a sofferenze fisiche e psicologiche ma anche, in modo specifico, ad infezioni, emorragie, cistiti croniche , problemi mestruali; rapporti sessuali difficili e parti dolorosi ed a più alto rischio di mortalità . Le infibulate affrontano anche la de-infibulazione per avere rapporti sessuali meno dolorosi e, soprattutto, per favorire il parto.
Le motivazioni della pratica mutilatoria, in verità non hanno un fondamento religioso e le MGF hanno un’origine antica e pre-religiosa; inoltre nessuna Sura del Corano nè altri testi religiosi prevedono la mutilazione genitale, anche se – sostengono alcuni – tale pratica sarebbe riferita in certi “detti” (hadith) del profeta Maometto ; inoltre, lo ricordiamo, anche le donne africane di religione animista e cristiana subiscono mutilazioni. La tradizione escissoria rientra a pieno titolo nel cosiddetto diritto consuetudinario, ha a che fare con l’ appartenenza etnica e, di più, con quella tribale o al clan, e così la pratica del taglio si trasmette e si tramanda, di madre in figlia, di famiglia in famiglia; lo si fa come precondizione al matrimonio, per inibire il piacere sessuale femminile, per celebrare un rito purificatorio ed iniziatorio e per “ristabilire” i ruoli tra i sessi e tra le generazioni, in un sistema culturale di consuetudini e convenzioni sociali economiche molto complesso.
Nel 2003, con la prima conferenza anti-MGF , si arrivò – finalmente – all’importante “Dichiarazione del Cairo” contro le MGF; da allora ad oggi , al livello internazionale, è cresciuta la consapevolezza del fenomeno e della sua diffusione e questo ha favorito l’entrata in vigore, nel 2005, del Protocollo di Maputo che affronta, più in generale, la difesa dei Diritti delle donne e che, nello specifico, sanziona le MGF come una violazione dei diritti umani.
Il Protocollo di Maputo è un punto di arrivo ed un punto di partenza; è un trattato sui Diritti delle donne in Africa, adottato dall’ Unione Africana, come Protocollo aggiuntivo, nel contesto degli accordi definiti dalla Carta africana dei diritti dell’ uomo e dei popoli. Nel Protocollo vengono condannate le discriminazioni contro le donne e specificate misure per l’eliminazione delle pratiche pregiudizievoli, definite tradizionali , “ lesive dell’integrità psico- fisica delle donne, come le mutilazioni genitali femminili” ( art 5).
E’ importante ricordare che nel giugno 2008 il Parlamento egiziano ha adottato una legge che sanziona penalmente le mutilazioni genitali femminili e che sempre al Cairo si è svolta – nel dicembre scorso, alla presenza di Suzanne Mubarak – la Conferenza “Cairo declaration on FMG +5”, alla quale sono intervenuti molti Ministri, e parlamentari, ed i rappresentanti delle Ong di 20 Paesi africani, che – con le donne in prima fila – hanno contribuito a rompere il muro del silenzio e ad adottare strumenti legislativi di proibizione.
Oggi, infatti, le MGF sono proibite in 18 dei 28 Paesi africani interessati dalla tradizionale pratica mutilatoria e si prevede che nel breve periodo verranno emanate simili leggi nazionali anche in altri Stati del Continente africano; anche per arginare il recente fenomeno riflesso – spesso denunciato da Emma Bonino – definito delle “emigrazioni mutilatorie”, di coloro che portano le figlie nei Paesi vicini dove c’è ancora l ‘impunità e tale reato non è perseguito. Va precisata, peraltro, anche l’esistenza di una reciproca inversa, ossia, l’iniziativa di coloro che, emigrati in Europa, portano le figlie in vacanza nei paesi d’origine per sottoporle alla mutilazione.
In molti Paesi europei esistono legislazioni di stretto riferimento che vietano le mutilazioni (in altri, le mutilazioni rientrano nelle lesioni personali e violenze fisiche in generale) e l’Europa sta studiando come uniformare, negli Stati membri, la legislazione ed arrivare anche alla stesura di un Protocollo sanitario per l’intera Unione, che aiuti il censimento dei casi e favorisca l’informazione e la diffusione della prevenzione del fenomeno.
Ricordiamo che il Parlamento Europeo ha già condannato le MGF (Risoluzione A 5-285/2001) ed, attraverso il Programma DAPHNE, ha insistito ed investito sugli aspetti preventivi, al fine di sradicare il fenomeno, e sulla necessaria tutela delle persone vittime o a rischio potenziale.
In Europa ed in Italia, come detto, il fenomeno è diffuso e rappresenta una delle schizofrenie silenziose dell’integrazione; talvolta le immigrate , anche le più colte ed istruite, continuano ad attribuire alla pratica una forte valenza simbolica, come lo “stigma” di un’identità culturale da difendere e trasmettere. Che di fatto, però, allontana l’idea di integrazione nel paese di immigrazione! E perpetua la relazione diseguale tra uomo e le discriminazioni di genere. E, la questione non attiene soltanto al campo medico ma va posta ed affondata sul terreno dei diritti umani e dei diritti delle donne che sono diritti umani.
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