di Barbara Benedettelli
La Convenzione di Istanbul riunisce le norme che combattono reati odiosi e attuali.
E non è vero che viola il principio di eguaglianza
Caro Giacalone, il suo articolo di ieri sulla Convenzione di Istanbul mi spinge a risponderle. Credo siano superficiali, riduttivi e maschilisti coloro che bollano un fenomeno complesso e difficile da sradicare come se si trattasse di una rivendicazione femminista fine a se stessa. O un modo per fare spendere altri soldi allo Stato. Ha tirato in ballo l’art. 3 della Costituzione: faccio notare che il principio di eguaglianza non è violato dalla Convenzione, in quanto la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Voler negare la presenza di ostacoli culturali, sociali ed economici che, di fatto, limitano la libertà della donna di sviluppare la propria personalità, non fa altro che alimentare la discriminazione che resiste ai secoli. Prendiamo gli ostacoli di ordine economico. Anche le “femmine” hanno diritto ad avere un trattamento economico eguale a quello dei maschietti, di non essere incluse in un cliché riduttivo, di poter scegliere quale strada percorrere senza condizionamenti. E che dire dell’art. 36 della Costituzione? «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro». Perché allora le donne nel nostro Paese percepiscono stipendi e pensioni di molto inferiori rispetto agli uomini? Questa disparità evidente va ad alimentare la violenza economica. Violenza che non mi risulta sia mai stata inflitta da una donna al suo partner, ma che fa parte del fenomeno contrastato dalla Convenzione. Trovo anzi che l’art. 36 sia discriminante e credo andrebbe modificato, aggiungendo dopo «il lavoratore» la frase «e la lavoratrice». Perché in Italia tutto dev’essere scritto, a scanso di equivoci. I padri costituenti si sono rifatti, in parte, con l’art. 37 tuttora inattuato: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Chissà perché c’è stato bisogno di questa specifica (o discriminazione verso i maschietti). Di certo negli anni Quaranta il problema era più evidente. Oggi la legge sopperisce, qualcosa è cambiato, ma la cultura predominante resiste, come dimostrano le statistiche e i fatti. Sotto sotto la donna che si emancipa disturba, quella stuprata se l’è cercata, per quella uccisa dal marito o dall’ex alla fine «ci sarà stato un perché». I colpevoli diventano vittime e le Vittime, quelle vere (e quindi con la V maiuscola), subiscono una secondaviolenza. Nell’articolo leggo: «Il maschio che picchia (o ammazza) la femmina commette un reato più grave di una femmina che picchia (o ammazza) il maschio?». Quanti maschi vengono uccisi ogni anno dalle loro donne? Quanti di loro vengono stuprati da una donna o da un branco? La violenza sul genere femminile di cui parla la Convenzione ha una sua specificità, che va riconosciuta per essere contrastata. È vero che la Convenzione prevede, oltre a quelli non contemplati, anche strumenti già in vigore nel nostro Paese. Ma per comprendere la sua utilità, bisogna immaginarsi nell’atto di mettere insieme i pezzi di un puzzle: se le tesserine si trovano in stanze diverse e qualcuna finisce sotto il divano, non solo ci si metterà più tempo a compiere l’opera, ma non si riuscirà a finirla a causa delle tessere nascoste. Se invece le si cerca prima e le si raduna tutte in un unico luogo, sarà più semplice ottenere il risultato. Oggi in Italia quelle tessere sono sparse, alcune non sono mai state create, altre non si trovano più. Ma la cosa peggiore è che quel puzzle molti non vogliono finirlo perché non ne vedono la necessità che invece in altri Paesi è chiara. E questo è lo scopo della Convenzione che, una volta definitivamente ratificata, ci obbliga – in virtù di uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione (art.10) – a seguirne le indicazioni senza se, senza ma, senza pregiudizi, senza ideologie, senza polemiche sessiste e senza perdite di tempo che costano la vita alle persone. Per quanto riguarda i centri antiviolenza, se sostenerli economicamente diventa “un obolo”, un pretesto per alimentare I’antipolirica e l’odio verso la casta spendacciona, allora siamo alla frutta. Questo fenomeno non si può giudicare attraverso una lettura parziale della Convenzione di Istan-bul. Bisogna prima affrontare, senza sottovalutarla, la realtà che è sotto gli occhi di tutti.
Libero Quotidiano – Negare la discriminazione non fa che alimentarla
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