di Pierluigi Battista
Far sentire i violenti isolati, disprezzati, sarebbe molto più efficace di una nuova legge
La violenza contro le donne è un crimine contro l’umanità intera, non solo di una sua metà. Perciò non dovrebbero essere solo donne a denunciarla e gli uomini dovrebbero sentirlo come un «loro» problema. Non perché in quanto tali ne siano corresponsabili, che sarebbe come dire che qualunque essere umano con la pelle bianca è corresponsabile delle nefandezze del Ku Klux Klan. Ma perché nessuna società retta dal principio di uguaglianza può consentire un così alto numero di delitti che abbia come vittime sempre la stessa parte. Perché è una società malata quella che non alza la voce se un numero elevatissimo di donne viene ucciso, seviziato, malmenato, discriminato. Molti pensano che nuove leggi servano ad affrontare meglio questo massacro continuato. Può darsi. Ma le leggi che impediscono di uccidere, seviziare e malmenare già esistono. Non è colpa di una legge che non c’è se l’assassino di Marie Trintignant è tomato in libertà e ha continuato a commettere gli stessi delitti. E’ colpa di una sciatteria e di un’indulgenza che, come si vede non solo in Italia, non valuta pienamente la pericolosità di chi pratica la violenza come mezzo ordinario e continuato di sottomissione coercitiva delle donne. Questo è il delitto culturale che donne e uomini dovrebbero contrastare in pari misura.
Non è una rivendicazione femminista in senso stretto, ma una rivendicazione democratica universale: la battaglia contro la violenza quotidiana sulle donne comincia con il rispetto rigoroso e intransigente del principio di parità e di uguaglianza, ovunque e sotto qualsiasi latitudine. Quando questo principio era più fragile, poco acquisito e metabolizzato nella coscienza media degli italiani, vigeva ancora la possibilità del delitto d’onore e la legislazione sanciva, con la complicità delle sentenze della Corte costituzionale, la maggiore gravità dell’adulterio femminile su quello maschile, dunque autorizzando il maschio a ritenere «normale» un comportamento discriminatorio. E anche in questa epoca il massimo della violenza sulle donne si raggiunge nelle società e negli ordinamenti che considerano ovvia l’inferiorità delle donne. Nella nuova Tunisia, deposto il dittatore, hanno tentato di inserire nella Costituzione un articolo che proclamasse il principio della «complementarietà» della donna rispetto all’uomo: e solo la mobilitazione delle donne tunisine, colpevolmente ignorate dalla stampa occidentale e democratica, ha sventato questo abominio giuridico e morale. Nelle società che vogliono applicare alla lettera le ingiunzioni del testo sacro coranico, la violenza sulle donne è pratica accettata, condivisa, incoraggiata, considerata addirittura come l’osservanza di un precetto religioso. In Pakistan una ragazzina è stata minacciata e poi colpita in un attentato da cui è miracolosamente uscita viva solo perché pretendeva di andare a scuola. La lapidazione delle donne «adultere» o che rifiutano di coprirsi secondo le disposizioni degli integralisti, o la punizione corporale per le donne che osano uscire da sole senza un maschio padrone o per le famiglie che non accettano il matrimonio coatto delle loro bambine di 12 o 13 anni, sono pratiche all’ordine del giorno in Iran. In Egitto hanno costretto con mezzi violenti le ragazze che avevano partecipato alla «primavera democratica» del Cairo a sottoporsi con la forza al «test della verginità». E in Siria una ragazza rischia la vita perché si è tolta il velo nella sua foto su Facebook, per il suo «diritto ad avere finalmente il vento tra i capelli». Fare il vuoto attorno ai violenti che uccidono e malmenano le donne è indispensabile più di una legge. In una cultura come quella cinese si commette serialmente il «femminicidio» con l’aborto selettivo di un numero elevatissimo di bambine. In Italia una cultura che rivendichi la superiorità del maschio e la soggezione della donna è sempre più debole. Ma non cessa di essere pericolosa se ancora tanti uomini maneschi, energumeni e disturbati si sentono ancora in diritto di maltrattare le donne. L’uguaglianza democratica, la parità senza cedimenti è l’antidoto culturale più forte che dovrebbe impegnare in misura eguale gli uomini e le donne, non lasciando alle sole donne l’onere delle battaglia. Poi certo viene il momento della legge, dell’inasprimento delle pene e così via. Ma è illusorio che in questo come in altri campi della criminalità la severità delle pene sia il pezzo più efficace. Far sentire i violenti isolati, disprezzati, indicati come dei vigliacchi sarebbe molto più efficace. Non legherebbe loro le mani ma creerebbe una remora in più, una forma di riprovazione sociale più intensa. Una battaglia democratica e non solo una richiesta sacrosanta di repressione. C’è bisogno di essere donna per sentirsene coinvolti?
Corriere della Sera – Il delitto che devono combattere gli uomini – Il nostro delitto culturale da combattere con le donne
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